“Poema vegetale”, come lo definisce la traduttrice Susanna Basso, il romanzo Spedizione al baobab della scrittrice sudafricana bianca Wilma Stockenström, che ha vinto numerosi premi tra cui il Grinzane Cavour, e da cui trae ispirazione lo spettacolo, è stato scritto nel 1981 in afrikaans. Ed è bello notare che questo racconto di una schiava trovi parola nella lingua stessa di chi quella sofferenza ha causato, nella lingua gutturale e straniera dell’offesa.
Nelle Memorie di una schiava la protagonista racconta il suo desiderio di opporre resistenza a una vita di violenze alle quali è stata “naturalmente” costretta. Lo spettacolo è il poetico monologo di una figura femminile della quale non si conosce il nome perché – dice – «pronuncio il mio nome e non significa nulla».
L’albero, il mitico e simbolico baobab in cui la vecchia schiava alla fine della sua vita si rifugia, l’accoglie e la protegge. Il baobab è il suo punto di riferimento, il confine spaziale e temporale tra un passato dominato da confusione e terrore e un presente in cui la creatura comincia a riprendere in mano i fili della sua esistenza. Dietro le spalle, in quel “prima diverso”, c’è la schiavitù, con le facce e i corpi dei padroni che hanno tormentato la sua vita.
Le riflessioni della protagonista ci aiutano a pensare e ci spingono a indagare sulle schiavitù di oggi, sulle nuove forme di costrizione che continuano a negare la libertà e la dignità umana.
Le parole poetiche di Wilma Stockenström, la sua storia della schiava sudafricana, si sovrappongono alle storie e ai volti delle ragazze nigeriane, senegalesi, ghanesi, albanesi di oggi.
La messa in scena si muove su diversi piani narrativi: parole, immagini e musiche, eseguite dal vivo da Baba Sissoko, griot maliano chiamato a raccontare nuove e più amare storie, a intonare un solo grande “canto corale di libertà”.